Arrivando a Montecassino non si può fare a meno di farsi trasportare nella sua storia, la storia di un territorio intero.

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Montecassino

La storia di Montecassino è strettamente collegata a Cassino e a tutto il suo territorio, prende il via da insediamenti dell’età del ferro, anche se tracce di vita preistorica la fanno risalire a data antecedente e fino al paleolitico superiore, questo grazie alla particolare posizione geografica.

La città fu terra di conquista di varie popolazioni, dai Sanniti ai Romani, ebbe la cittadinanza romana nel 188 a.C. quando divenne colonia, prefettura e municipio, quando raggiunse il massimo splendore nel periodo imperiale, i monumentali resti sono tutt’oggi visibili: Anfiteatro, teatro, ninfeo, tombe monumentali, strade selciate ed un acquedotto di 22 chilometri. Conobbe poi la devastazione dei barbari con la caduta dell’impero romano.

Tutto il territorio riprese vita con la venuta di Benedetto da Norcia a Montecassino nel 529, e con l’opera di bonifica e organizzazione sociale dei Monaci.

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Purtroppo nei successivi anni Cassino e Montecassino conobbero ancora una volta devastazioni da parte di popolazioni come: Longobardi, Saraceni e Normanni. Quando il sito dell’antica Cassinum fu abbandonato si cercò di ricostruire la città più a nord, sulle sorgenti che si trovano ai piedi di Montecassino.

L’Abate Bertario (856-833), iniziò la ricostruire ma gli fu impedito dai Saraceni, perse la vita egli stesso.

L’Abate Aligerno (948-985), riprovò con la ricostruzione e grazie a lui nacquero i castelli dipendenti dall’Abbazia di Montecassino e fu eretta la Rocca Janula e fu ricostruito Cassino grazie anche a varie donazioni e fu conosciuto come ”Terra Sancti Benedicti”, un vero e proprio stato a conduzione monastica. Con l’Abate Atenolfo (1011-1022), e grazie a ciò che aveva iniziato l’Abate Bertario, nacque finalmente la città che prese il nome di S. Germano.

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Intanto l’Abbazia cresceva in cultura e arte e si affermò come importante centro religioso e politico nel panorama europeo, purtroppo, nei secoli successivi, non gli furono risparmiati guerre, devastazioni, pestilenze e terremoti disastrosi.

La Terra di S. Benedetto sotto la dominazione del Regno di Napoli fu denominata ”Stato di S. Germano” ed affidata alla guida dell’Abate, che per privilegio veniva considerato primo barone del regno, con tutti i diritti feudali, compresa l’amministrazione della giustizia. Con l’arrivo dei francesi nel 1806 sul trono di Napoli ebbe termine lo Stato di S. Germano, così l’Abbazia fu incamerata nei beni del regno e l’Abate ne fu nominato semplice custode.

Nel 1863 San Germano mutò il nome in Cassino, e nel 1927 uscì dal territorio Campano per far parte della nuova provincia di Frosinone, nel Lazio.

Purtroppo di nuovo questo territorio fu scosso da battaglie a causa della seconda guerra mondiale. Tra il Settembre del 1943 al Maggio del 1944 fu teatro della più aspra battaglia della seconda guerra mondiale. Dai monti delle Mainarde, degli Aurunci e fino al mar Tirreno vi furono intensi combattimenti che durarono oltre nove mesi.

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Montecassino ne fu il centro nevralgico in quanto aveva una posizione dominante sull’unica agevole via di accesso. Dopo lo sbarco degli alleati a Salerno le truppe germaniche furono costrette alla ritirata e decisero di porre la massima resistenza lungo una linea fortificata che tagliava trasversalmente l’Italia dall’Adriatico al Tirreno: La LINEA GUSTAV. Questa passava proprio sui monti che sovrastano la Valle di Casino, dove sorgeva Montecassino.

Ben barricati sui monti del cassinate i tedeschi riuscirono a contrastare gli alleati per ben nove mesi, come già detto.

La tragedia iniziò il 10 Settembre 1943 con uno spaventoso bombardamento anglo americano sulla città di Cassino. Questo colse letteralmente di sorpresa la maggior parte della popolazione che cercò disperatamente di lasciare il territorio ritirandosi nei paesi circostanti oppure sui monti intorno al cassinate, molti cercarono rifugio proprio nell’Abbazia di Montecassino, erano fiduciosi che nessuno avrebbe osato attaccare quel luogo, ma purtroppo nei mesi successivi quelle zone divennero campo di sterminio.

Il 15 Febbraio si consumò su Montecassino una immane tragedia, un bombardamento feroce lo ridusse ad un accumulo di macerie, naturalmente morirono anche tutti i civili che avevano trovato in quel luogo un riparo. Fortunatamente, non si sa ancora come sia potuto accadere, l’immenso patrimonio librario ed archivistico era stato messo già in salvo a Roma nel mese di Ottobre dagli stessi tedeschi. Come se non bastasse con un secondo bombardamento venne distrutta anche la città di Cassino, esattamente un mese dopo il 15 di Marzo. I centri abitati lungo la ” Via Gustav” non furono risparmiati, vennero distrutti quasi tutti.

Tra le rocce di Monte Cairo e Montecassino non trovarono la morte solo i residenti, ma anche moltissimi combattenti di varie nazionalità, combattevano nel vano tentativo di espugnare le fortificazioni tedesche. Naturalmente gli assalitori erano erroneamente convinti che nel Monastero vi fossero postazioni nemiche, mentre i tedeschi si erano tenuti lontani, stabilendo una linea di rispetto nei riguardi del luogo Sacro, escludendola dalle operazioni militari.

Clicca qui per vedere il video dell’ ”Istituto Luce”, del bombardamento di Montecassino.

Qualcuno scrisse che: ”Si combatteva da entrambe le parti con la consapevolezza che erano in gioco i destini della Patria”. Furono ricordati i versi del Latino di Orazio: ”Dulce et decorum est pro patria mori”.

Per ricordare la guerra un monumento per la Pace dell’artista arpinate Umberto Mastrianni domina la città di Cassino dall’alto ed all’ingresso del Monastero si trova ad accogliere i visitatori la scritta ”PAX”.

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Nel territorio cassinate ci sono i sacrari militari di alcune delle nazioni che combatterono su quel suolo:

Cimitero Tedesco nella frazione di Caira (20.035 salme).

Cimitero Polacco a Montecassino (1053 salme).

Cimitero inglese in via S. Angelo (4270 salme).

Cimitero italiano di Montelungo (975).

Cimitero Francese a Venafro (3414 salme).

Oltre mille soldati polacchi morirono per difendere il Sacro monte di Benedetto e nei pressi dell’Abbazia si possono visitare le loro tombe nel cimitero Polac

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co con annesso museo con foto e video a ricordo della battaglia.

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La ”Linea Gustav” fu superata solo il 18 Marzo 1944  con l’abbandono delle postazioni da parte dei difensori, questo fu l’inizio della liberazione che il 4 Giugno consentì agli alleati l’ingresso trionfale a Roma. Il martirio di Cassino e Montecassino fu utile? Ai posteri larga sentenza! La città eterna era salva!

Questa è solo una parte a grandi linee, di ciò che accadde, ma vi sono retroscena indimenticabili, come tutte le violenze che ci furono a carico soprattutto di donne e bambini.

Cassino, città forte di braccia e di cuore, già un anno dopo l’ultima battaglia, il 15 Marzo 1945 si era rinnovata, ripopolata e a grandi passi si ricostruiva guardando al futuro.

Per questo sacrificio alla città di Cassino venne riconosciuto l’appellativo di ”Città Martire per la Pace” e fu decorata con Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Su tutto il territorio vi sono ricordi e testimonianze della immane tragedia, sui monti circostanti si possono ancora vedere le trincee e le caverne o dei semplici fori nelle rocce dove i combattenti si nascondevano e riparavano.

Una curiosità che in pochi sanno è che il castello nel paese della vicina Vicalvi era stato adibito ad ospedale e proprio per questo vi era stata disegnata sulla facciata (proprio sul lato verso Cassino), una grande croce rossa in modo che gli aerei che lanciavano le bombe potevano vederla da lontano e tenersi alla larga.

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Da ricordare il bellissimo evento che ogni anno si tiene tra Cassino e Montecassino: il Corteo Storico ”Terra Sancti Benedicti”. Nasce nel 1994 in occasione del cinquantesimo anniversario della distruzione e ricostruzione di Montecassino e Cassino, su iniziativa dell’Abbazia di Montecassino e della ”fondazione San Benedetto” con l’intento di arricchire le celebrazioni benedettine del 21 Marzo riproponendo antichi riti in volgare. Un impegno costante fin dall’inizio di storici e artigiani, tutti con la stessa passione per le nostre tradizioni. Centinaia i figuranti in costume del periodo storico raccontato che va  dal 1263, quando l’Abbazia ritrovò lo splendore dopo la fase della dominazione sveva fino al 1349, l’anno del terremoto che distrusse Montecassino, un lasso di tempo di quasi un secolo durante l’età feudale.

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Vi invito a leggere l’articolo che ho scritto per questo evento proprio l’anno scorso.

Cliccare qui per leggere l’articolo

Montecassino merita davvero di essere visitata, vale un viaggio. Oggi meta di tanti turisti ma soprattutto di pellegrini che seguendo il ”Cammino di San Benedetto”, partono a piedi da Norcia (città natale di San Benedetto), e arrivano a Montecassino (luogo della Morte del Santo).

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Un professore di termodinamica ha assegnato un’esercitazione a casa agli studenti del suo corso di laurea.
Il compito consisteva in una domanda: “L’inferno è esotermico (libera calore) o endotermico (assorbe calore)? Sostenete la risposta con delle prove”.
La maggior parte degli studenti ha cercato di dimostrare le proprie convinzioni citando la legge di Boyle (un gas si raffredda quando si espande e si riscalda quando viene compresso), o alcune sue varianti.
Uno di loro, tuttavia, ha scritto quanto segue.
“Innanzitutto, dobbiamo sapere come cambia nel tempo la massa dell’inferno, quindi abbiamo bisogno di stabilire i tassi di entrata e uscita all’inferno delle anime.
Credo che possiamo tranquillamente assumere che, quando un’anima entra all’inferno, non è destinata a uscirne. Quindi, nessun’anima esce.
Per quanto riguarda il numero di anime che fanno il loro ingresso all’inferno, prendiamo in considerazione le diverse religioni attualmente esistenti al mondo. Un numero significativo di esse sostiene che se non sei un membro di quella stessa religione andrai all’inferno. Siccome di queste religioni ce n’è più di una ed abbracciano una sola fede per volta, possiamo dedurne che tutte le persone e tutte le anime finiscono all’inferno.
Dunque, stanti gli attuali tassi di natalità e mortalità della popolazione mondiale, possiamo attenderci una crescita esponenziale del numero di anime presenti all’inferno.
Ora rivolgiamo l’attenzione al tasso di espansione dell’inferno, poiché la legge di Boyle afferma che, per mantenere stabile la temperatura e la pressione dentro l’inferno, il volume dello stesso deve crescere proporzionalmente all’ingresso delle anime. Questo ci dà due possibilità:
1) Se l’inferno si espande ad una velocità minore di quella dell’ingresso delle anime, allora temperatura e pressione dell’inferno saranno destinate a crescere, fino a farlo esplodere.
2) Se l’inferno si espande più velocemente del tasso d’ingresso delle anime, allora temperatura e pressione scenderanno fino a quando l’inferno non si congelerà.
Dunque, quale delle due è l’ipotesi corretta? Se accettiamo il postulato comunicatomi dalla signorina Teresa Baghini durante il mio primo anno all’università, secondo il quale “Nevicherà all’inferno prima che io te la dia”, e considerando che ancora non ho avuto successo nel tentativo di avere una relazione sessuale con lei, allora l’ipotesi 2 non può essere vera.
Quindi l’inferno è esotermico”.
Lo studente ha preso l’unico 30.
(Fonte FB)

Nel 1918 Arturo Gazzoni, imprenditore bolognese, lanciò sul mercato una caramella contro la tosse. La composizione degli ingredienti furono quelli di una ricetta balsamica di tal Fra Giacomo il Portoghese, farmacista di fiducia del mitico Re Sole.
All’epoca, l’industria Gazzoni era una tra le più importanti d’Italia e lo sarà a lungo soprattutto per quella polverina magica dal nome “Idrolitina” che trasformava l’acqua del rubinetto in una bevanda gassata. Inventerà successivamente il “Dietor” in sostituzione dello zucchero per coloro che avevano l’ assillo della dieta. Ma la pasticca del “Re Sole” era un vero toccasana per lo zio Antonio che aveva una bronchite cronica, ereditata dalla prigionia, quando fu catturato dagli Inglesi in Africa Settentrionale e trasferito nella fredda Inghilterra.
Espelleva il catarro dai bronchi e dalla gola con rumorosi colpi di tosse. Non era una melodiosa musica da ascoltare ma lui ne trovava grande giovamento. Da bambino l’ho assaggiata anch’io, di nascosto, curioso di scoprirne il gusto, in realtà non aveva un buon sapore, era amarognola, si incollava al palato come un adesivo e liberarsene era un problema. La scatola era di latta, laccata di bianco o di giallo, credo che dipendesse dalla concentrazione degli ingredienti, la gialla era per una tosse persistente.
La campagna di lancio della miracolosa pasticca fu “firmata” addirittura da Trilussa, il poeta famoso per i componimenti in dialetto romanesco, che compose per l’occasione “Il pappagallo raffreddato”
“Loreto è un pappagallo ammaestrato.
Se quanno parlo co’ Ninetta mia
s’accorge ch’entra in camera la zia
tosse e fa finta d’esse raffreddato:
e noi che lo sapemo, appena tosse
se damo l’aria come gnente fosse.
Però la zia, ch’è furbe e che capisce,
jeri se ne sortì co’ ste parole:
“Je darò le Pasticche der Re Sole,
perché co’ quelle è certo che guarisce;
ma se per caso seguita a sta’ male
è segno ch’è una tosse artificiale.”
(di Luciano DURO)
Sono così, suonano quando capita, dove l’occasione è propizia: nelle feste, nei matrimoni e nei battesimi, nelle comunioni, nelle campagne durante il raccolto, semplicemente in strada per il piacere di fare baldoria con gli amici, spesso si prestano per qualche serenata alle fidanzate di quelli più grandi, perchè in fondo sono “uagliune” cresciuti in fretta.
Mariuccio è ancora un bambino, ha una bella “voce a stesa”, sembra quella di una ragazza. È il più piccolo dei due e tra qualche anno crescerà e cambierà; avrà la voce di uomo fatto. Canta con trasporto, le note fendono l’aria e sembrano raggiungere la luna: “Le voglio dì ch’è bella e ‘a voglio bene ma ‘stu curaggio ancora nun me vene…”
Nel periodo antecedente la Pasqua percorrono a piedi le periferie, incuranti del buio e non temono il latrare rabbioso dei cani. Bussano ad ogni porta e cantano la passione di Cristo. Mariuccio chiude gli occhi dalla stanchezza ma resiste e così è il fratello maggiore a cantare e a dettare i tempi.
L'immagine può contenere: 2 persone, cappello e bambinoE’ freddo, la buona stagione tarda a venire, le mani sono gelate, il pigiare con forza e continuamente sui tasti provoca dolore alle dita.
Il cantare in maniera persistente con un tono alto, rende la voce rauca che man mano si affievolisce, ma non importa, quale miglior occasione per guadagnare qualche soldo? Alcuni mettono dentro la cesta le uova, va bene lo stesso, le rivenderanno al negozio di alimentari.
Fosco vorrebbe andare in Germania per imparare il mestiere nella bottega di parrucchiere dello zio e il sabato sera suonare nelle balere dove si riuniscono i paesani.
Non sono andati a scuola di organetto; hanno imparato dal padre che a sua volta aveva imparato dal suo e così di tempo in tempo i ragazzi hanno ereditato il repertorio di una vita.
Chissà forse i figli, alla loro età, suoneranno rock con la chitarra distorta … Io spero che la tradizione continui e che ognuno aggiunga una storia al libro della sua vita… di tempo in tempo.
Ho visto l’altro giorno Mariuccio, è da solo, con la sua “scatola del vento”, Fosco è ora a Stoccarda dallo zio, è sera, cammina per i vicoli suonando una lenta mazurka, si sente triste, il fratello gli manca e vorrebbe raggiungerlo, ma ha solo 11 anni… ci sarà tempo per scrivere altre pagine del libro… Suona ragazzo, non smettere mai, suona fino a farti sanguinare le dita, ci sarà sempre qualcuno ad ascoltare: un bambino con il volto di pane dietro la finestra, un vecchio uomo sull’uscio di casa, donne che danzano con ampie gonne colorate. Suona ragazzo, suona, non c’è spazio che possa contenere le tue note, volano nel cielo terso, e viaggiano lontano… lontano … Suona ragazzo, suona, ci sarà sempre una serenata da cantare, un matrimonio per poter ballare e un campo di grano da mietere … di tempo in tempo. (LUCIANO DURO)
È il 1990 a Baltimora, Maryland. Un giorno la maestra d’asilo convoca d’urgenza mamma Debbie.
“Michael non riesce a stare seduto, non sta mai tranquillo, non riesce a focalizzare” dice la maestra.
“Forse è solo annoiato” risponde Debbie.
“Impossibile. Si rassegni, semplicemente suo figlio non è dotato, non sarà mai in grado di focalizzarsi su nulla” sentenzia la donna senz’appello.
Il bambino in questione, quel Michael, di cognome fa Phelps, ha 5 anni, è cresciuto senza padre in una famiglia interamente femminile, insieme alla madre e alle due sorelle, e fino a quel momento non ha quasi mai messo piede in una piscina. Quando lo fa per la prima volta, è talmente terrorizzato all’idea di bagnarsi la faccia, che l’istruttore è costretto a insegnargli il dorso. Michael ha un talento innato, ma discontinuo. A scuola non va meglio. Tutte le sue insegnanti ripetono a Debbie sempre le stesse cose: “Non riesce a concentrarsi in nessun compito”, “non è portato per questa o quella materia”, “infastidisce il compagno di banco”. Debbie allora decide di sottoporlo a una visita specialistica. La diagnosi è chiara: ADHD o DDAI, meglio noto come Disturbo da deficit di attenzione/iperattività.
Ma Debbie, oltre ad essere una mamma, è anche insegnante e preside. E si mette in testa di dimostrare a tutti che sbagliano. “Sapevo che, se avessi lavorato duro con Micheal, lui avrebbe potuto raggiungere tutti gli obiettivi che si fosse prefissato.”
Lavora a stretto contatto con le insegnanti di Michael e, ogni volta che una di loro le dice “non riesce a fare questo”, lei risponde: “Bene, cosa possiamo fare per aiutarlo?” Di fronte alle sue difficoltà con la matematica, gli trova un tutor e un metodo che susciti l’interesse di Michael, con problemi di questo tipo: “Quanto tempo impieghi a nuotare per 500 metri se nuoti ad una velocità di 3 metri al secondo?”.
Trasforma i limiti di suo figlio in opportunità. Ogni volta che lui ha uno scatto di rabbia o di frustrazione in piscina, lei dagli spalti gli fa un segnale convenzionale a forma di C che, nel loro linguaggio privato, significa “Ricomponiti”.
Michael migliora a scuola, mentre in vasca è già un piccolo squalo: a 11 anni, è più forte e veloce di qualsiasi altro suo coetaneo che abbia mai nuotato negli Stati Uniti. Debbie viene, allora, convocata per il secondo colloquio più importante della vita di Michael. Questa volta non è una maestra d’asilo ma il suo allenatore, Bob Bowman. È il maggio del 1996.
“Signora, ora le dico cosa succederà” esordì. “Nel 2000 Michael parteciperà ai Trials olimpici. Non so se conquisterà la convocazione, ma sicuramente farà parlare di sé. E nel 2004 sarà senza dubbio un atleta che vincerà delle medaglie olimpiche. E saremo solo all’inizio”.
Bob sbagliava. Nel 2000, a Sydney, non solo Michael si qualificherà nei 200 metri farfalla, ma raggiungerà la finale, classificandosi al quinto posto, sfiorando il podio e una medaglia. Aveva 15 anni appena compiuti. Da quel giorno, per i successivi 16 anni, Phelps conquisterà 83 medaglie, di cui 66 d’oro, 28 olimpiche, 33 iridate, in otto diverse discipline, diventando, nel 2008 a Pechino, l’atleta con più ori (otto) in una sola edizione della storia dei Giochi e, per distacco, il nuotatore più vincente di ogni tempo, oltre a uno degli sportivi più forti di ogni sport o epoca.
Quel campione inarrivabile e icona planetaria è stato un bambino con deficit dell’attenzione diagnosticato, come decine di milioni di altri bambini come lui in tutto il mondo. Con la sola fortuna di avere avuto al suo fianco una donna e una professionista che non lo ha mai giudicato, né giustificato, ma lo ha spinto a tirare fuori il proprio talento dove altri vedevano solo disturbi, disattenzione e iperattività. Avrebbe potuto rassegnarsi, come le aveva consigliato la sua prima maestra d’asilo. Invece Debbie ha deciso di fare qualcosa di molto più lungo e faticoso: credere in suo figlio.
Forse nessuno di quei milioni di bambini diventerà mai Michael Phelps, ma, dietro lo stigma di una diagnosi e di un giudizio senz’appello, ci sono persone con talenti e capacità fuori dal comune in qualunque ambito o professione. A volte quello che manca è solo qualcuno disposto a vederli e a riconoscerli. Proprio come mamma Debbie.

Una leggenda popolare racconta che la Madonna Annunziata ha scarpe consumate perché cammina di notte sfamando i poveri e gli orfanelli. Nel giorno della sua festa c’è l’usanza di sostituire le scarpette alla statua. «A Santa Annunziata, tutto ‘o popolo è saziàt»

Questo detto popolare accostato al giorno 25 Marzo, celebra la festa dell’Annunciazione del Signore: una delle principali feste mariane più sentite in tutta la storia del cristianesimo che annuncia al mondo la nascita di Cristo per opera dell’Altissimo incarnatosi nel grembo della Vergine Maria, che si appresta a ricevere la notizia dall’Arcangelo Gabriele.
L’ Incarnazione del Verbo, il primo mistero gioioso che contemplata la nascita di Gesù; il più elevato, il più nascosto.

In questo giorno, secondo l’antico proverbio, il popolo napoletano (i ceti più poveri e bisognosi) è sfamato dall’intervento provvidenziale della Santissima Annunziata; la Madonna a cui si attribuisce un culto devozionale molto importante a Napoli grazie alla prima storica istituzione della Real Casa Santa dell’Annunziata, dedicata all’accoglienza e all’assistenza dei neonati abbandonati.

La Real Casa Santa dell’Annunziata

Una pietra miliare della nostra città è la Real Casa Santa dell’Annunziata, l’istituzione che da oltre seicento anni ha ricoperto un ruolo molto importante su Napoli, diventando un punto di riferimento per l’accoglienza di tanti neonati, spesso frutto di amori illeciti, ragazze madri, donne economicamente disagiate. Ha svolto una funzione sociale preziosa per arginare l’abbandono minorile (all’epoca molto frequente) per offrire assistenza all’infanzia abbandonata e alle ragazze povere o prive di famiglie a cui si prestava aiuto.
L’Istituzione venne fondata nel 1304 per volere di due galantuomini napoletani, due fratelli, Nicolò e Jacopo Scondito molto sensibili al fenomeno dell’abbandono minorile e patrocinata in seguito dalla Congregazione della Santissima Annunziata, fondata nel 1318.
Negli anni successivi, mentre prendeva il via il progetto nel 1343, i fratelli Scondito si procurarono il sostegno della regina Sancia di Majorca moglie del Saggio Roberto d’Angiò, che diede alla congregazione una veste giuridica e riconosciuta, tramutandosi in Real Casa dell’Annunziata di Napoli.

La Ruota degli esposti

La prima chiesa dedicata all’Annunziata, sorse nel XIII secolo per volere degli Angioini, e poi ampliata nel 1513 quando si progettò una chiesa per accogliere i fedeli; nel Settecento a causa di un’incendio devastante, la chiesa fu affidata all’opera di grande architetto Luigi Vanvitelli, donandole lo stile tardo-barocco. Durante la seconda guerra mondiale, l’edificio fu gravemente danneggiato dai bombardamenti a cui seguirono scrupolosi interventi di restauro, per riaverla ancora oggi splendente e maestosa, carica di storia e fascino in Via dell’Annunziata n.34.
Tra i monumenti degni di nota: la Cappella del Tesoro e la Cappella Carafa con altrettanto sepolcri di nobili famiglie napoletane del cinquecento tra cui i Caracciolo, e la statua della Madonna dei Repentiti con Bambino, una scultura lignea risalente alla fine XIV secolo, detta affettuosamente «Mamma Chiatta» l’essenza della maternità incarnatasi nella Vergine che accoglieva gli orfanelli.

Insieme alla chiesa, l’elemento più caratteristico legato al nome dell’Annunziata è certamente la «Ruota degli esposti» un pertugio, una sorta di tamburo di legno scorrevole di forma cilindrica, dove si adagiavano i neonati «gli esposti» abbandonati alla nascita dalle madri che affidavano i loro figli alla provvidenza divina e all’intervento caritatevole delle suore, auspicando per loro un futuro migliore.

Nei registri del XVI secolo si annotavano tutti i particolari morfologici del neonato: il giorno della venuta, l’ora, il peso del bambino, gli elementi distintivi, caratteristiche peculiari, e gli oggetti che venivano deposti nelle fasce, per poter risalire un giorno all’eventuale famiglia di nascita.
A questi bambini si dava l’appellativo i figli della Madonna o figli d’a Nunziata o gli Esposti da cui Esposito tipico cognome napoletano, originatosi dal termine «esposto» in quanto tutti i bambini ricevevano il nome di battesimo dalla balia che li aveva in custodia e il cognome, secondo il regolamento della casa, uguale per tutti: Esposito.

Per il sovraffollamento del brefotrofio della santa casa e il numero ridotto di personale accadeva che molti neonati non sopravvivevano alla prima settimana di vita mentre i più fortunati venivano affidate a balie esterne su compenso o adottati dalle famiglie più agiate che non avevano figli.
Questo mezzo di fortuna andò avanti fino al 1814 quando Gioacchino Murat volle l’abolizione di tale usanza e solo nel 1875 la ruota dell’Annunziata fu chiusa; ma la povertà e gli espedienti per tirare avanti non cessarono di esistere al meridione, che se pur di nascosto, la ruota assolse alla sua funzione ovvero quello di accogliere i neonati, spesso lasciati davanti ai gradini della chiesa e allevati dalle suore e salvati da un tragico destino.

La leggenda delle scarpe consumate

La Basilica della Santissima Annunziata Maggiore, situata nel cuore del centro storico di Napoli, quartiere Pendino a pochi passi da Forcella, nasconde una singolare leggenda: alla statua della Madonna vengono annualmente cambiate le scarpe perché molto consumate, conservate come reliquie e prestate alle famiglie per guarire un figlio.
La credenza popolare sostiene che l’Annunziata, cammina di notte sfamando i poveri e gli orfanelli, portando conforto a tutti i suoi figli. Da qui le scarpe molto logore, un fatto prodigioso alquanto singolare, la prova evidente dell’amore mariano maturato per chilometri.
Questa credenza molto sentita, incontra l’interesse del popolo napoletano ma non quella della Chiesa che prende le giuste distanze dai fatti. Nessuno osa gridare al “miracolo” anzi la faccenda è definita puramente leggenda, credenza popolare. Ma rimane vera.

L’usanza comune vede coinvolte le donne del quartiere, le quali si recano in chiesa esprimendo un voto al fine di ottenere una grazia per i bambini; alcuni sono casi più difficili, altri per restituire la salute di un proprio caro. Come pegno per la promessa mantenuta, le donne rendono omaggio all’Annunziata regalandole i loro capelli e raccomandandole la custodia dei loro bambini; questo gesto molto semplice viene compiuto per ricordare tutte quelle donne che hanno perso in disgrazia i loro figli, a quelli che che sono stati abbandonati e per tutte quelle mamme che non riescono ad averne uno.

Molte madri sostengono che la Madonnina va in giro a visitare tutti i suoi figli, nome per nome, volto per volto.

La scultura della Madonna Annunziata è una piccola statua seduta in trono, inserita in una teca di vetro, collocata in un angolo della chiesa e non al centro, quasi a nasconderla dagli sguardi. Somiglia ad una bambola di porcella: giovane e bella con lunghi capelli dorati (capelli veri) che le cadono in una fluente chioma, su cui pende una corona dalle simbologie mariane. Un prezioso abito damascato bianco intrecciato con fili in oro, decorano il suo vestito, accompagnato dal mantello azzurro pregiato che le cinge le spalle; le mani aperte in segno di accoglienza esprimono l’amore di una mamma generosa e premurosa verso tutti i figli.
Ai piedi nascosti sotto l’abito, ci sono le piccole scarpette dorate (commissionate ad un artigiano del posto) che vengono sostituite il 25 Marzo, giorno della festa, la cui leggenda narra delle suole consumate a seguito delle uscite notturne della Madonna per sfamare gli orfani. La statua è curata con amore e devozione dalle suore che provvedono a tenerla sempre in ordine, pulita e sistemata. A lei si attribuiscono grazie e intercessioni per i propri figli.

La testimonianza più forte ci viene raccontata da Suor Maura con un’intervista rilasciata su IL Mattino ha raccolto tutte le esperienze dirette di chi ha ricevuto un segno dalla Madonna.

Dicono che la Madonna continui ancora oggi a vegliare sui bimbi dell’Annunziata. Raccontano che qualche settimana fa un medico in servizio di notte ha sentito una voce chiamare il suo nome. Quella voce lo ha trascinato davanti alla culla di un neonato, poi è sparita. «Quel bimbo stava soffocando, la Madonna l’ha salvato». Medici e dirigenti annuiscono con la testa. La Madonna che consuma le scarpe, quella notte vegliava su uno dei suoi figli. Forse non sarà un miracolo, ma crederci non costa nulla…🙏
Leggenda o meno, miracolo o no, ci piaceva raccontare questa storia davvero singolare, ricca di fede e di devozione. 

(Fonte web)

Nessuna squadra al mondo ha mai rappresentato per il calcio tutto ciò che è riuscito al Grande Torino.
L’Italia in quegli anni era reduce da una guerra perduta, avevamo poca credibilità internazionale e furono le gesta dei nostri campioni a rimetterci all’onore del mondo: Bartali, Coppi, il discobolo Consolini, le macchine della Ferrari e appunto il Grande Torino che, essendo una squadra,
dimostrava a tutti come un popolo di individualisti come gli italiani sapessero far fronte comune per dare vita al più bel complesso di calcio mai visto e mai più comparso su un campo di calcio.
La Juventus del Qinquennio, il Real Madrid, il Santos, la Honved, l’Inter di Herrera, l’Ajax e il Milan degli olandesi hanno rappresentato, è vero, eventi tecnici straordinari, ma nessuno ha pareggiato il Grande Torino.I granata, guidati da Valentino Mazzola, il capitano dei capitani, hanno record strabilianti e assolutamente irripetibili. Bastava, per esempio, uno squillo del trombettiere del Filadelfia perchè si scatenassero. Leggendaria, per esempio, una partita romana quando il Grande Torino, in svantaggio di un gol nel primo tempo contro i giallorossi, stabili negli spogliatoi, durante il riposo, che non si doveva più scherzare. Fu così che vennero segnati 7 gol a dimostrazione che quella squadra vinceva come e quando voleva.

Non per nulla l’11 maggio del 1947, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale, vestì dieci granata d’azzurro per una partita disputata a Torino contro l’Ungheria.

I nostri eroi naturalmente vinsero. E avrebbero continuato a vincere su tutti i fronti se non fosse sceso in campo il destino più tragico per fermarli. Ma non per batterli. Perchè quella squadra di grandi uomini e di grandi campioni è passata direttamente alla leggenda.
Oltre ai giocatori sono periti nella strage anche i giornalisti, dirigenti e tecnici.

 

Giornalisti

Renato Casalbore
Aveva 57 anni, e dal 1913 viveva per Io sport, giusto allora essendo entrato quale direttore sportivo alla Gazzetta del Popolo di Torino. Critico equilibrato, dalla prosa garbata, dallo spunto signorile, era competentissimo in ogni ramo di sport: ma sovra tutti prediligeva il calcio che egli stesso aveva intensamente praticato negli anni giovanili. Sempre rimasto allo stesso giornale. Se ne staccava solo nel 1941 quando fondava Tuttosport assumendone la direzione e portandolo presto ad un posto di avanguardia per esattezza di cronache, per spirito d’iniziativa, per tempestività di critica. Era sposato ed aveva una bambina

Luigi Cavallero
Capo dei servizi sportivi del quotidiano «La Stampa» di Torino, Cavallero aveva 42 anni. Veniva, giornalisticamente, dalla gavetta, poichè aveva cominciato – attorno al 1925 – a collaborare con qualche pezzo ai giornali sportivi di allora, ancora non pensando di poter fare del giornalismo sportivo la fonte della sua vita. Nel 1926 passava redattore a «Il Paese Sportivo», collaborava quindi con assiduità al «Guerin Sportivo» e nel 1929 era assunto da «La Stampa». Era ammogliato e padre di tre figli.

Renato Tosatti
Sempre allegro e sempre indaffarato, lavoratore instancabile, sentiva la sua responsabilità di marito e padre di tre figIi degnamente crescere. Contava quarantanni, Genovese, aveva cominciato a farsi conoscere con talune sue corrispondenze al «Guerin Sportivo», da lui argutamente firmate con lo pseudonimo di «Totò»: al «Guerino» collaborava tuttora, così come collaborava a «Tuttosport» con la firma di «Kid». Ed era ora ai servizi sportivi di «Gazzetta del Popolo» e di «Gazzetta Sera». Aveva seguito il «Torino» a Lisbona desideroso di prendersi una breve licenza.

Dirigenti

Agnisetta
«Gli occhi non rimangono asciutti se penso ad Agnisetta, sportivo di gran razza; quando era alla Lega Regionale e talvolta gli andavo a chiedere qualche giusta provvidenza per certe squadre di provincia, andava di persona a vedere, si metteva in quattro, rendeva giustizia o soccorreva i bisognosi senza far strappi alla legalità, perchè aveva cuore, ma per tutti, ed era uomo d’ordine, e amava le cose giuste…».
Questo quanto ha scritto «Carlin» per il rag. Rinaldo Agnisetta. direttore generale del «Torino». Rinaldo Agnisetta era tra le più conosciute ed apprezzate figure di quella sportivissirna Torino che tanti autorevoli uomini di sport può vantare. Contava 56 anni, e da almeno quaranta primavere si dedicava allo sport, spesso assumendone ruoli di estrema responsabilità. Cosi come quando, agendo con suprema energia, si era trovato a sanare una dura crisi economica del «Torino» stesso. Ebbe allora tatto e tenacia, fermezza e intelligenza; mostrò nella contingenza virtù straordinarie di risanatore e seppe vincere.
Per il «Torino» la perdita di Agnisetta è una perdita irreparabile; il sodalizio granata gli doveva molto… e lui ha voluto andarsene, col suo «Torino», nel momento in cui Ia società alla quale tanti tesori di energia e di intelligenza egli aveva dedicato, aveva raggiunto il massimo fulgore.
Non sembrerà vero, quando il «Torino» avrà saputo superare anche il durissirno colpo odierno, che alla immancabile rinascita non abbia potuto contribuire anche Rinaldo Agnisetta.

Civalleri
Ippolito Civalleri, «Civa» come lo chiamavano affettuosamente, negli ambienti del «Torino», ha lasciato pure lui, per sempre, Ia società granata. Era l’accompagnatore ideale, capace di rendere tutti di buonumore, ritenendo – davvero non a torto – che le lotte più difficili bisogna saperle vincere avvicinandosi ad esse col sorriso sulle labbra. Era ad un tempo il custode ed il protettore dei suoi giocatori, che particolarmente a lui ubbidivano e di lui temevano Ie sfuriate rarissime… ma che comunque c’erano quando, qualcuno, Ia faceva davvero grossa. Non era più giovane, coi suoi 66 anni; ma lo spirito era quello dei ventanni. Usava dire che i capelli grigi glie Ii aveva fatti venire il «Torino».

Cortina
Insuperabile manipolatore di muscoli, in uno col fisico Ottavio Cortina sapeva curare più volte il morale dei giocatori affidati alle sue cure; di animo buono, generosissimo, gli atleti del «Torino» avevano trovato in iui il loro confessore, quegli che poi – senza darne a vedere – s’interessava per sistemare situazioni, per pianificare eventuali dissidi. Ed oltre a tutto, in sua serietà professionale che lo portò, infine, a divenire massaggiatore ufficiale della stessa squadra nazionale.
I giocatori volevano gran bene a Ottavio Cortina; si fidavano di iui e di quelli ch’egli chiamava i suoi «cinquantun anni di esperienze, spesso dure e molte volte difficili, nella vita e nello sport».

Tecnici

Lievesley
Nato in Inghilterra 37 anni fa, nonostante la giovane età Lievesley era già noto nell’ambiente calcistico di tutto II mondo per le sue rare virtù di allenatore. Fra i tanti scesi l’anno scorso in Italia dall’Inghilterra, Lievesley, forse unico fra tutti, non aveva deluso; una volta ancora, anche in questo delicato settore di direzione, i tecnici del Torino avevano avuto la mano felice. Non era ancora entrato in piena conoscenza con Ia lingua italiana, eppure sapeva egualmente farsi intendere dai giocatori ch’erano alle sue cure. Ed aveva avuto un gran merito, a differenza di altri suoi colleghi britannici: quello, cioè, di non applicare il sistema d’allenamento inglese agli atleti italiani troppo dissimili per temperamento e per le stesse caratteristiche fisiche da quelli inglesi; ma di saper plasmare lo stesso metodo britannico sulle esigenze dei giocatori torinesi.
Cosi gli era stato dato conservare in pieno Ia «forma» dei suoi campioni che pure erano tra quanti sostenevano Ie maggiori fatiche in quanto, a diversità degli altri italiani, non riposavano certo quando il calendario presentava qualche partita internazionale.
Si era trovato bene a Torino, ed in ragione di ciò aveva fatto scendere dall’lnghilterra Ia moglie e la figlia, deciso a restare per Iungo tempo in Italia dove aveva trovato piena cordialità e cornprensione per le sue particolari necessità. Quando dai giornali gli accadeva di leggere un riconoscimento alle sue innegabili qualità, si commuoveva; ritagliava il pezzetto e Io inviava agli altri suoi parenti rimasti in Inghilterra. Si diceva fiero di appartenere al «Torino» e di poter collaborare ai suoi successi.
La particolare sua competenza gIi era riconosciuta negli stessi ambienti del nostro calcio azzurro; ed anche qui, in qualche occasione, era stato richiesto con successo pieno l’apporto della sua competenza indiscutibile.

Erbstein
Egri Erbstein, nato a Budapest cinquant’anni fa, era già noto fra noi Italiani ancor prima che in Italia scendesse in veste di allenatore; egli era, infatti, stato uno dei più valenti giocatori d’Ungheria, e come tale più volte chiamato a vestire la maglia di quella rappresentativa. Cosi, tanti anni fa egli aveva avuto modo di allinearsi di fronte alla nostra nazionale in cavalleresche e combattute contese.
Disporre di Egri Erbstein significava disporre di un elemento sicuro: rapido nei giudizi, ma non mai avventato, serviva particolarmente al «Torino» in occasione dell’ingaggio di nuovi elementi; se si considera quanti ottimi acquisti abbia saputo portare in porto il «Torino» degli ultimi anni, basta tale solo fatto per riconoscere di quale qualità Erbstein poteva disporre e quanto egli potesse rendersi utile alla società che aveva Ia fortuna di ascoltarne i consigli.
Ma Erbstein non si limitava a ciò: vera enciclopedia di competenza calcistica egli era anche capacissimo istruttore. Lo sanno benissimo in Ungheria (ed in parte lo sappiamo anche noi Italiani) quanti giovani campioni sono sorti dalle sue attente cure, che vivevano sotto un alone di paterna severità. E la riconoscenza di questi atleti da lui creati era piena: lo si è visto ai funerali di Torino quando Fabian, venuto da Lucca, si lasciò disperatamente andare sulla bara del suo «maestro».
Vi è da notare un particolare: Egri Erbstein non amava viaggiare in aereo, e ogni volta che si presentava una trasferta del genere diceva che si sarebbe rifiutato energicamente di seguire la squadra. Era stato così anche in occasione dell’ultimo volo…

 

«Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne dei morti della gente per bene nel Corriere per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari. Non si sa più dove mettere i bambini orfani di madri ed i cui padri sono al fronte. È un problema trovare ora dei medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e in fondo nessuno è curato a dovere. Forse anche la grande mortalità è dovuta alla scarsa assistenza sanitaria».

Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 12 ottobre 1918.

«Per consolarci dall’influenza verdigera, che imperversa sempre più (A Roma 200 morti – anche a Torino è gravissima – alla Camera abbiamo 12 inservienti ammalati e un segretario della Biblioteca morto l’altro giorno; neppure le trincee di libri salvano da questa peste!), si vuole che tra le cagioni che determinano il mollamento tedesco ci sia il grippe, che avrebbe messo a letto 300 mila soldati, e i casi in Germania si conterebbero (pigliala per quel che vale) a 12 milioni».

Lettera di Filippo Turati ad Anna Kuliscioff 13 ottobre 1918.

Nell’ottobre del 1918 l’Italia è stremata. La Prima Guerra Mondiale è agli sgoccioli: prima della fine del mese ci sarà la battaglia di Vittorio Veneto, che sancirà definitivamente la sconfitta e il disfacimento dell’Impero austro-ungarico, e la vittoria italiana. Ma sono giorni difficili, per chi è al fronte come per chi è rimasto nelle città. Alla fine dell’estate sulla penisola si è abbattuta una seconda ondata di influenza spagnola, che sta facendo più vittime della guerra.

Se la prima ondata del virus, nella primavera precedente, era passata quasi sottotraccia, il nuovo picco di settembre non può essere ignorato: la maggior parte dei circa 4 milioni e mezzo di contagi e 600mila morti – su una popolazione di 36 milioni di abitanti – viene colpita proprio in quelle tredici settimane da settembre a dicembre.

La situazione degenera rapidamente. Conseguenza soprattutto delle tardive contromisure del governo e delle amministrazioni locali, che in un primo momento avevano sottostimato l’impatto dell’influenza spagnola e provato a nasconderla per non aggiungere ulteriori preoccupazioni agli italiani.

Nei mesi più duri del conflitto la censura della guerra aveva contribuito a sbiadire l’impatto del virus, mentre sui giornali si creavano contraddizioni tra le numerose colonne di necrologi e i minuscoli trafiletti di cronaca creati ad arte per rassicurare la popolazione con sole informazioni di servizio.

Ora che è tutto finito e la pandemia è esplosa, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando si trova costretto a vietare il suono delle campane per i funerali, soprattutto dove il morbo fa più vittime, come a Torino – una situazione «gravissima» nelle parole di Turati – dove nel mese di ottobre si registrano anche 400 morti al giorno.

In pieno autunno il bilancio della spagnola inizia a diventare insostenibile e lo Stato deve reagire. Il 17 ottobre 1918 viene pubblicato il decalogo dettagliato del comune di Milano, con una serie di indicazioni da seguire: «Fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese, sale di conferenze). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento», e così via.

In tutta Italia le autorità centrali e locali danno il via a una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici per assecondare le richieste dell’opinione pubblica. L’inizio della scuola viene posticipato a data imprecisata; viene ridotto l’orario di apertura dei negozi, con le sole farmacie a beneficiare di un allungamento dei turni; cinema e teatri restano chiusi nonostante le proteste dei proprietari che chiedono di essere risarciti.

La classe dirigente vuole fermare solo i servizi non essenziali, facendo lavorare a pieno regime le principali attività economico-produttive: fermare la complessa macchina statale avrebbe incalcolabili ripercussioni sull’operatività dell’esercito in un momento decisivo del conflitto. La conseguenza però è l’aumento di assembramenti all’ingresso dei negozi alimentari; nonostante la consapevolezza del pericolo, lo Stato sceglie di non aggiungere limitazioni per non aggiungere nuove ansie. I ceti popolari temono di rimanere senza viveri e assicurare loro il pane – al netto della carenza di beni di prima necessità – è un tentativo di calmare gli animi.

Il governo sceglie anche di non fermare le fabbriche. Gli spostamenti quotidiani di migliaia di operai, però, moltiplicano le occasioni di contagio: le condizioni igieniche e lavorative non possono garantire la salute dei lavoratori, la distanza non è rispettata, né le precauzioni eseguite alla lettera. Così la malattia avanza inesorabilmente nelle industrie facendo crollare la produttività.

Gli stabilimenti dipendenti dal Comitato regionale di mobilitazione industriale per l’Italia centrale e la Sardegna (nei centri di Roma, Ancona, Terni e Chieti) registrano dal 10 ottobre al 27 novembre 12.426 casi d’influenza su 40.048 operai, che causano circa 75mila assenze dal lavoro.

«L’Italia scontava un duplice ritardo, sia per le strutture statali, sia per la condizione della popolazione», spiega Paolo Mattera, professore di Storia Contemporanea all’Università Roma Tre. L’impostazione della sanità si dimostra del tutto inadeguata per una pandemia di quella portata. In assenza di un ministero della Sanità – sarebbe stato istituito solo nel 1958 – le malattie infettive, considerate un problema di ordine pubblico, sono in carico al ministero dell’Interno, e l’unico provvedimento certo – conosciuto e condiviso anche nel resto del mondo – è il distanziamento sociale.

«Si guardava prevalentemente alla sicurezza – spiega il professor Mattera – si puntava a isolare i malati in casa. Questi, privi di cura, morivano in numero maggiore, e contagiavano i familiari nelle case, che morivano di conseguenza». Ma non va poi tanto meglio a chi è ricoverato in ospedali travolti dall’emergenza sanitaria: il personale sanitario è abituato a una routine lenta, compassata, con procedure farraginose, incapace di adeguarsi con la dovuta rapidità. I medici protestano per le estreme condizioni lavorative, con poco personale e mezzi inadeguati: alcuni di loro arrivano ad abbandonare il servizio. E non sono gli unici a protestare.

Con il passare delle settimane il peso di quella seconda ondata di influenza spagnola presenta il conto a tutta la popolazione italiana, che manifesta la propria preoccupazione, impressionata dalle spaventose scene a cui si assiste nelle città e nelle campagne a causa dell’eccesso di mortalità.

Fino all’estate l’impatto sui cittadini era stato diverso. Durante la prima ondata di influenza, meno letale, era prevalso il desiderio di liberarsi dal peso e dai dolori della guerra: per quanto potesse essere diffusa la spagnola avrebbe impiegato del tempo per scavarsi un posto tra le preoccupazioni degli italiani. La stessa guerra – la più devastante a memoria d’uomo – aveva completamente stravolto la percezione e il valore della morte.

Una buona parte della popolazione vive in piccoli borghi, o nei villaggi, con un orizzonte esistenziale molto ristretto. Per molti italiani nel 1918 lo Stato è ancora una realtà astratta, distante, che si presenta soltanto per le tasse e la leva militare: c’è una certa diffidenza, o comunque distanza, verso le istituzioni.

«Questi sentimenti – spiega Mattera – si trasformano in ostilità quando ci si rende conto che le contromisure dello Stato non hanno effetto. Lo si nota in alcune lettere inviate dai cittadini alle istituzioni, che nel corso dell’epidemia passano da un tono di supplica a uno di avversione, a volte sfociando perfino in teorie del complotto: si diceva che il malfunzionamento delle istituzioni fosse frutto di chissà quali oscuri interessi di Roma. Alimentando ulteriori paranoie e anche la diffusione di false notizie in piena escalation di influenza».

A novembre l’epidemia sembra aver allentato le maglie. Il 9 novembre la Giunta sanitaria di Milano rileva «il quasi completo ripristino dello stato normale della salute pubblica, ferme quelle disposizioni la cui efficacia è stata dimostrata chiede la revoca di tutti i provvedimenti eccezionali». Ma forse è ancora troppo presto e nelle settimane successive i contagi riprendono a crescere.

«Finita la guerra, mio padre ritornava grazie a Dio vivo e sano, ma nella nostra casa regnava la miseria, più guaio ancora finita la guerra, vi è stata una malattia infettiva chiamata la spagnola, anche mio padre e quasi tutto il popolo erava infettato e l’agente moriva accatastrofi nel nostro piccolo paese. Al giorno morivano tante volte due o tre in una famiglia, anche mio padre appreso quel male, ed è arrivato impunto di morire fino a portarle il viatico e lestremensione il nostro parroco. […] All’ora eravamo 4 fratellini forse Dio l’avuto pietà e lo à fatto campare», racconterà Tommaso Bordonaro, di Bolognetta, provincia di Palermo, nove anni nel 1918, nel libro di Francesco Cutolo “L’influenza spagnola del 1918-1919”.

Nel Mezzogiorno l’influenza spagnola colpisce ancora più forte, vista l’inadeguatezza delle strutture sanitarie e la scarsa preparazione di una parte della classe dirigente. Anche lì riaprire e tornare alla normalità non porta il sollievo sperato: la pandemia ritorna per una terza ondata. Anche a causa dei reduci del conflitto, che ritornano alle loro case e alimentano nuovi focolai.

L’11 gennaio il periodico socialista «La Squilla» di Bologna ancora scrive: «Censura / Morti in guerra: 462.740 / Feriti: 987.340 / Invalidi e mutilati: 500.000 / Non c’è la statistica dei morti di spagnuola, perché la “maledetta” continua ad ammazzare! / Dopo il cannone, lei ci voleva! / Ma da che mondo è mondo la peste andò sempre dietro la guerra / È storia; è anche nella Bibbia!».

Articolo de linkiesta continua a leggere l’originale..

Maria Laura Bellini nasce il 16 novembre 1928 a Portoferrario in provincia di Livorno, da Angelo e Maria De Stefani.
La famiglia si compone di altri cinque figli e Maria Laura concorre giornalmente, dopo il lavoro, ad assistere i fratelli minori.
Il padre Angelo, vecchio squadrista della Marcia su Roma, ha aderito tra i primi al rinato fascismo repubblicano ed è milite nella locale 7° Brigata Nera “Bruno Ponzecchi” creata per difendere la federazione dagli attacchi della neonata resistenza.
Proprio per proteggere i militi e le loro famiglie, i fascisti vengono trasferiti in abitazioni poste all’interno della cerchia dei posti di blocco posizionati ai confini della città, e così i Bellini si trasferiscono con altre famiglie di squadristi nello stabile dell’ex Gruppo Rionale “Silvio Lombardi”, ove attualmente è ubicato il noto Circolo Ricreativo del Piazzo. Maria Laura pur essendo ricordata dai figli degli altri squadristi come compagna di giochi, ormai ha compiuto 16 anni e passa parte del suo tempo ad assistere i feriti repubblicani, ricoverati all’Ospedale di Biella.
Questa doveva essere una sorta di attività volontaria suggerita ai figli dei militi fascisti.
Mia madre, anche lei figlia di uno squadrista, mi raccontava che si era recata più volte al capezzale di un ragazzo ferito nel corso di uno scontro.
Il ragazzo straparlava nel delirio e, stringendole forte la mano, si rivolgeva a chiunque si avvicinasse al suo giaciglio, gridando : “Sei di Monte Mario?”
Poi fortunatamente ricadeva nell’incoscienza e nell’oblio e pochi giorni dopo il ragazzo moriva.
Mia madre ne conservò un ricordo indelebile e straziante.
Maria Laura fu anche madrina nella consegna del gagliardetto alla Brigata Nera, in una cerimonia pubblica, nel piazzale della Casa dell’Opera Balilla, l’attuale sede della Biblioteca Civica. Le foto la ritraggono mentre porge il gagliardetto a padre Leandro San Giorgio per la benedizione, per poi consegnarlo al Segretario Federale Antonio Giraudi, entrambi trucidati pochi mesi appresso, dopo la resa.
Il padre si riconosce fra i militi della sparuta Brigata Nera, in gran parte composta da uomini avanti con gli anni o imberbi adolescenti.
Probabilmente la presenza a questa cerimonia fu fatale alla povera ragazza.
Maria Laura aveva però intrecciato un’innocente relazione con un milite della Legione “Pontida” della Guardia Nazionale Repubblicana, di stanza al presidio del Favaro.
Questo era ubicato in una delle ville che ancora oggi costeggiano il “girone”, il luogo dove il trenino che conduceva ad Oropa compiva un giro su se stesso per elevarsi di livello.
Il ragazzo si chiamava Remo Alberti, classe 1924 e filava da qualche tempo con Maria Laura, che nei momenti di libertà saliva in tram fino al Favaro per trascorrere qualche ora in sua compagnia.
In queste brevi puntate l’accompagnava un’amica, tale Gina Perazza di Tollegno, che amoreggiava da poco con un altro milite dello stesso reparto, Mario Bernio di Cremona.
Le testimonianze dei due giovani, riportate negli interrogatori dei carabinieri, ci illustrano chiaramente la situazione delle due coppie.
Mentre Remo coltiva il suo affetto sincero per Maria Laura, alcuni dubbi cominciano a sorgere nei confronti dell’amica, che si lascia sfuggire alcune espressioni di solidarietà con il mondo partigiano.
Che sia per questa o per altra ragione Mario decide di lasciare Gina proprio il giorno 14 gennaio 1945, in occasione di uno di questi appuntamenti nei pressi del Favaro, al termine del quale le due amiche vengono riaccompagnate al tram dal solo Remo che sale con loro alla fermata della “Prussiana” ( la curva a gomito al termine del paese che precede la cava del “girone”), per scendere poco dopo al centro del paese.
I tre si salutano, Remo e Maria Laura si abbracciano ed il tram prosegue la sua corsa verso valle.

Fonte blog.lagranderupe continua a leggere

E’ stato l’unico italiano ad essere ucciso nel programma di eugenetica voluto da Hitler. Subendo assurde torture.  Questa è la storia di un bambino napoletano Sergio De Simone, originario del quartiere Vomero. Un’anima innocente di appena 8 anni.

Il suo nome è rimasto nella storia perché fu l’unico italiano sottoposto a sperimentazione medica in un campo di concentramento nazista. Di origini ebraiche, il piccolo Sergio fu prima trattato come una cavia umana e poi ammazzato insieme ad altri 19 compagni di sventura.

Marchiati e separati

Il bambino lasciò Napoli insieme alla sua famiglia per essere condotto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau il 29 marzo 1944, con il convoglio 25T.

Sergio fu scaricato sulla rampa del lager la notte del 4 aprile 1944. Tutti i componenti del suo nucleo familiare furono marchiati con dei numeri, perdendo così la loro identità primaria e la loro dignità di esistenza. Mamma Gisella divenne la numero 76516, Sergio il numero 179614, la zia Mira il numero 76482 e le cuginette, Andra e Tatiana, rispettivamente con i numeri 76483 e 76484. I bambini, fin da subito, furono separati dalle loro mamme e spediti in dormitori differenti (Voce di Napoli, 27 gennaio 2017).

Le 20 cavie

Il medico e criminale nazista Kurt Heissmeyer – che doveva compiere gli esperimenti sui bambini – si fece assegnare 20 piccoli ebrei come cavie, che gli furono procurati facendoli prelevare proprio dal campo di sterminio di Birkenau dall’altrettanto tristemente celebre dottor Josef Mengele, tra i responsabili del progetto di eugenetica nazista.

L’inganno

Mengele, entrando nella baracca dove erano stati riuniti i bambini, per selezionarli disse: «Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti».  Sergio subito si fece avanti insieme ad altri bimbi. Una volta selezionati, furono successivamente trasferiti nel campo di concentramento di Neuengamme, presso Amburgo, dove sarebbero stati usati come cavie.

Infettati ed Impiccati

Arrivati a Neuengamme, attraverso una prima incisione sotto l’ascella, i venti bambini vennero infettati con bacilli vivi della tubercolosi, capaci di scatenare la malattia in forma molto violenta. Tutti ne furono colpiti. Alcuni vennero sottoposti ad altri interventi, tra cui quello per asportare le ghiandole linfatiche.

Questi tormenti proseguirono fino al 20 aprile 1945 quando, con gli inglesi alle porte, i nazisti si preoccuparono di cancellare ogni traccia. Fu allora che i venti bambini vennero trasportati nella scuola di Bullenhuser Damm. E, nella cantina di quell’edificio, furono impiccati senza pietà (Fan Page, 3 maggio)

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